PENDOLARI
Colti nel viaggio, fra treno e metrò, da Legnano a Cassina de Pecchi. Fotografati in un momento di sospensione muta, priva di considerazioni, sorrisi, risentimenti. Nello scorrere di paesaggi ipnotici. Attesa pura. Minuti, mezze ore di condizione umana insondabile. Pezzi di vita, per così dire, connettivi. Fra sonno e lavoro o, al ritorno serale, fra livida noia e attesa del prossimo tepore domestico. Solo da poco mi sento guarito dall’insensibilità catatonica del viaggio, sensazione che, pendolare anch’io da anni, condividevo con i soggetti delle mie foto.
Suggestionato dal pallore dei neon che rendevano quei volti anonimi e universali, ho lasciato spazio al privato bisogno di raccontare per immagini quegli ambienti e quella scheggia di quotidianità: priva di eventi eclatanti, di parole e di memoria.
Si è trattato anche di descrivere una parte della mia storia personale che non volevo restasse “temp perdu”. Con i miei furtivi scatti ho retto l'illusione di essere uscito dallo schermo, di disporre di un altro destino. Ma forse fotografare me stesso non avrebbe condotto a risultati diversi. L'aspetto più sofferto dell'operazione, perché meno “leale” del dovuto, è stato quello di rendere discreto e “mimetizzato” l'atto fotografico, cosa che è stata possibile grazie all’utilizzo di una fotocamera digitale di piccole dimensioni ed estremamente silenziosa. Per temperamento, ho sempre considerato e praticato la fotografia come gesto di socializzazione e coinvolgimento. Questa volta non avevo alternative: la consapevolezza del soggetto, il suo rinvenire ad una coscienza formale, avrebbero completamente vanificato il senso della ricerca. L'idea di mostrare questo lavoro, che mi piace considerare ancora in itinere, nasce da un naturale bisogno di condivisione e di confronto, strumenti, questi, necessari per affinare modalità espressive e trovare eventuali punti di contatto o di contrasto fra la mia sensibilità e quella degli osservatori (e osservati).